C’era qualcosa di sorprendente in lui. La sua arroganza, quel modo di porsi in trincea, attaccante e mai terzino, queste cose insieme e la sua sconsideratezza lo rendevano unico e perverso. Amavo il suo modo di prendermi, gli occhi stretti da gatto, il sorriso largo che strangolava. Mi sentivo sparato, volevo essere sparato, solo da lui. Da allora ho iniziato ad odiare le persone che si piangono addosso, seguendo spesso quel suo fiato che odorava di successo mi trascinavo dietro i pensieri carnali che spruzzava nell’aria come un segugio corre dietro al padrone.
Quella prima volta lo vidi entrare, poi sedersi e ordinare una birra al ragazzo dietro al bancone. Sapevo perché era lì, cosa volesse. Lo sapevo, prima ancora di poterglielo leggere nello sguardo che luccicava di perversione, emanava perversione. Quello sguardo che cercava se stesso nell’altro, l’annientamento totale, l’urlo che da strozzato sarebbe divenuto complice e carnefice.
E così fu, dopo, nell’anfratto della toilette. Tra il puzzo di piscio che induriva i nostri sessi, aumentando il dolore tra le gambe. Lui mi afferrava e spingeva per il collo, mi abbassava e la mia bocca si apriva, e la sua mano mi attirava e io lo risucchiavo in un ingoio che lasciava tracce di sangue e poco alla volta si fotteva tutta la mia vita.
Ci sono cose che non si capiscono, che succedono e basta, facendoci rotolare giù nello scarico come escrementi. Le nostre anime ci apparivano inutili esempi votati al massacro, pezzi di un puzzle che non si sarebbero mai potuti ricomporre, incastri sbagliati di un’attrazione sfregiata.
Ci saremmo desiderati a lungo, perché a questo eravamo votati. Ci saremmo uccisi in quelle diaboliche repliche di noi stessi, succhiandoci come vampiri alle prime luci dell’alba, sbronzandoci di sangue vergine che ci rigenerava nelle bare della nostra esistenza. Era una felicità sessuale e metafisica malata la nostra, una perversione assoluta e assurda, furore e morte… la morte che sgorgava da dentro come l’acqua dalla roccia.
E accadde una, cento, mille volte, e ogni volta era diversa, perché diverso era il nostro modo di spararci che ci portava a fronteggiare a mani nude le nostre stesse vite e tutte le forze del mondo. Era esattamente come doveva essere, un rifugio dolorante, un lungo tunnel nero senza fine che attraversarlo liquefaceva tutto il corpo e tutto quello che c’era oltre il corpo, e ogni brandello era risucchiato e aveva un posto preciso. La morte che organizzava il mondo, lo radeva al suolo e lo riedificava lentamente. E ogni volta saremmo ritornati appaiati, ricongiunti a noi stessi, alla nostra diabolica perversione, portati a ricercare il senso ultimo della nostra esistenza inghiottivamo gli intestini di sgombri putrefatti e disciolti nella salamoja.