C’era qualcosa che non andava. Qualcosa di profondo. Una specie di urlo ricorrente che da dentro, da un punto nascosto dell’anima, a volte usciva strisciando lungo l’intestino per fermarsi in gola.
Un gesto sbagliato, un sorriso di troppo, parole dette e non comprese, uno sguardo imperfetto… E ogni volta quell’urlo si strozzava lì.
Era cresciuto, lui, scegliendo di mentire perfino a se stesso, sforzandosi di credere che quello che gli succedeva non dipendeva dall’urlo né da lui. Dipendeva da qualcosa di imperfetto che riscontrava ogni volta in tutti gli altri che incontrava. La verità era un’altra, lui lo sapeva. Ma l’urlo non lo aiutava di certo a comprendere.
E così quell’inevitabile desiderio di toccarsi, quel congiungersi sul filo del traguardo di due corpi nudi e affannati, la promiscuità di un sesso anormale per molti, in realtà a lui appariva come l’unico desiderio appagante e lo faceva stare bene. Però quella mattina l’urlo era incontrollabile e la voglia di soffocare con esso era più forte, pressante. Gli toglieva il fiato. Ma lo lasciò fare.