La giornata stava quasi per finire, e fuori iniziava a imbrunire.
La stanza era immersa in quella penombra di passaggio che dava alle cose quella velata parvenza, di magico e irreale, difficilmente avvertibile in altri momenti della giornata.
Sdraiato sulla chaise-longue in pelle nera, Andrea era immobile a braccia conserte; poteva scorgere ancora attraverso i fori della tapparella abbassata i giochi delle luci della strada. Ne sentiva anche i rumori sullo sfondo, seppure appena percettibili, come si odono le cose quando ci si tappano le orecchie con le mani; quel miscuglio di auto, tram, il via vai della gente, sirene in lontananza…
Non sai pensare che a te stesso, eh? Gli aveva detto prima di andarsene. Con quel tono di voce ch’egli aveva imparato a conoscere e dosarne gli impulsi; anche se a volte ci rimaneva ancora male, stordito sarebbe la parola più appropriata.
E se Simo avesse ragione? Se tutto questo proprio trascinato malessere – come l’altro gli ripeteva da tempo – fosse nient’altro che la propria innata voglia di autocommiserarsi, innalzando tra sé e gli altri ‘siepi e sovrumani silenzi’, e solo per il gusto decadente di farlo?
Già, Simo; quanto era bello, Simo, frizzante nel suo stato giovanile di ebollizione ribelle.
Ed egli invece, senza bollicine nel proprio volersi crogiolare nel vedersi già vecchio. Quarant’anni, e credeva di averne il doppio. Il doppio!
Tu ormai sei solo un cetriolo ammuffito, rugoso e arido. Questo gli aveva detto Simo prima di lasciarsi la porta chiusa alle spalle.
Da allora, più di dodici ore prima, immobile in quella posizione, su quella chaise-longue di design, Andrea non smetteva di fissare quella porta. Non credo sapesse che cosa stava aspettando gli succedesse. Per un attimo forse sì, lo aveva intuito; ma era stata l’esitazione a fargli perdere l’opportunità di comprenderlo. Non so, non so, non so… ripeteva dentro di sé, ritmicamente, il segnale di occupato. Non riusciva a riattaccare. O forse neppure voleva.
Poi, a un tratto, quel senso di inquietudine era sparito. Proiettata nella parete di fronte vedeva l’immagine del suo Simo; la sigaretta portata alla bocca, il fumo che lo annebbiava. Vedeva i suoi occhi, però, li vedeva a colori stagliarsi dal bianco e nero dello sfondo imperturbabile: gli apparivano deliziosi, gentili, galanti addirittura. Era come se la sua immaginazione, ancora una volta, lo avesse fatto schizzare via dalla propria stanza verso quell’altra dimensione; e avvertiva il calore della mano di Simo e ne vedeva l’immagine riflessa, dalla fiamma delle candele, nei bicchieri di beaujolais nouveau che portavano alla bocca, incrociando le braccia, uno verso quella dell’altro.
Era stanco Andrea; ma iniziava a sentirsi, con tutta l’approssimazione umana del termine, sereno. Sì, sereno. Iniziava a sentire che fra lui e il mondo esisteva un punto di riferimento, e che avrebbe potuto fidarsi di quello. Ne aveva un bisogno assoluto.
E lo avvertì come una scossa registrata dal corpo, nel momento esatto in cui sentì inserire la chiave nella toppa della porta. Proprio una bella scossa.