L’amore sbagliato

di Guido Siragusa

Quando Michele varcò la porta del bar erano le dieci e mezza di sera. Nessuno si curò di lui. Rimase lì con lo sguardo fisso nel vuoto, in piedi vicino al frigo dei gelati, mentre gli prendeva una fitta allo stomaco.

Un diretto ben assestato, di quelli che ti piegano in due per un minuto intero. Michele era diventato pallidissimo. Fece una smorfia di dolore, forse di rabbia, o forse tutte e due le cose insieme. Poi con un gesto improvviso si girò di scatto verso Alfonso. Il barista.
«Alfo, dammi una scura.» E si appoggiò al bancone, specchiandosi per un attimo dietro la distesa delle bottiglie. In quell’istante gli sembrò di vedere nel suo volto riflesso quello dell’amico.

Qualcosa di simile gli era già successo altre volte, ma non come adesso.
Adesso era qualcosa di forte, a cui non poteva sfuggire. Qualcosa che avvertiva come una morsa che lo stava stringendo dentro, nelle viscere più profonde, un dolore ancora più insopportabile del primo, talmente lancinante che si vide il viso diventare ancora più pallido, cadaverico.
«Che faccia… ragazzo!» Gli disse Alfonso, mettendogli sotto il naso la bottiglia di birra. «Cosa ti è successo?»
«No, niente… È che… Alfo vado a casa…» E uscì dal bar senza salutare.

Fuori faceva freddo. Un freddo boia, e c’era anche la nebbia. Una di quelle sere d’autunno agli sgoccioli in cui si tagliava con il coltello. Michele si fermò sulla porta a guardarsi attorno. Forse per un minuto o forse molto di più. Sentiva le gambe maledettamente rigide, incollate a quel fottuto marciapiede.

Quando più tardi Michele si buttò di traverso sul letto di camera sua, il dolore allo stomaco non voleva mollare. Era diventato lancinante. Si accartocciò su se stesso, con le gambe piegate fin contro il petto, e se ne stette lì rannicchiato su un fianco, in quella posizione fetale che assumeva tutte le volte che aveva bisogno di allontanare da sé il dolore. In quei momenti gli mancavano le carezze della madre, le mani che affondavano nei suoi capelli lunghi e morbidi, il profumo di buono che lei emanava come quando da piccolo, dopo un brutto sogno, seduta sul bordo del letto gli raccontava una favola per calmarlo dalla paura. Sua madre? Come avrebbe voluto Michele averla ancora con sé. Uno non può rimanere orfano a soli otto anni, è ingiusto! Pensò. Terribilmente ingiusto e crudele.

All’improvviso sentì suonare il cellulare. Tre squilli appena, lo avvisarono dell’arrivo di un sms. Non volle leggerlo. Preferì rimanere sintonizzato ancora sul ricordo struggente della madre, e avvertì quasi un malcelato senso di fastidio nel ricevere quel messaggio proprio in quel momento. Lo stesso senso di fastidio che avvertiva allora, quando la sorella lo chiamava per giocare, e lui era là al buio intento ad orecchiare gli amplessi dei genitori. E ascoltando i loro rumori immaginava i loro corpi nudi e provava frustrazione, vergogna e senso di esclusione… In quei momenti, Michele odiava con tutte le sue forze il padre. Lo odiava più delle volte che l’uomo alzava le mani su di lui e lo insultava riempiendolo di botte, più di quando doveva assistere alle scene durissime e volgari alle quali facevano seguito giorni di ostile convivenza tra suo padre e sua madre e lui.

Era anche in quei momenti che Michele si sentiva solo più che mai, straziato tra l’amore per la madre e quello, misto di rabbia e timore, del padre. Però durante quelle lunghe settimane di conflitto, a volte mesi, la madre lo faceva dormire con lei. Era quella l’unica cosa piacevole delle liti che Michele ricordava. Si sentiva felice, stretto tra le braccia della madre, al caldo delle coperte, coccolato.
Poi, prima o poi, il padre si ravvicinava sempre alla madre. Qualche moina e lei ci ricascava. E così la madre lo sbatteva fuori dal letto, e quei due si mettevano a fare l’amore come conigli, fino al nuovo litigio. Allora Michele ritornava nella sua camera e rannicchiato sul letto come ora, da lì sentiva tutto. Tutti quei rumori, il respiro forte del padre, i risolini insopportabili della madre e poi le sue grida…
Lui si sentiva messo fuori, usato e poi gettato via, impotente perché piccolo, e quindi incapace di soddisfare i desideri della madre.

Tutt’a un tratto afferrò con rabbia il cellulare con la mano destra. Muovendo nervosamente il pollice digitò sulla testiera per qualche secondo. Poi rimase lì ancora un po’ a fissare il display luminoso.

Quando il giorno seguente Michele incontrò Graziano nei pressi della scuola, erano passate da poco le otto. Pioveva e tirava un gran vento. Era venuto lo stesso in scooter, bardato da far schifo. Graziano lo aspettava all’angolo tra l’edicola e il bar, infreddolito e bagnato come un pulcino. Diversamente dall’altro, Graziano sembrava veramente un pulcino. Per quel suo aspetto gracile e un po’ delicato e anche per il volto sul quale aleggiava un’aria da bravo scolaretto. Nei suoi occhi acuti come lance e fissi e liquidi come quelli di chi supplica, puntati dritti verso l’amico, c’era tutto lo stato d’animo che aveva preceduto l’incontro.

Quando Michele gli fu vicino, Graziano si allentò il bottone in alto della giacca a vento e cacciò fuori la voce come se si stesse liberando dal peso della lunga attesa.
«Hai letto il giornale?» disse a bruciapelo. «Perché non rispondi ai messaggi? Ci beccano… io non volevo… tu lo sai!»
Graziano era paonazzo, gli mancava l’aria, e cercava disperatamente di respirare.
Michele non rispose subito. Lo guardò a lungo con uno sguardo che, all’inizio, parve lo sguardo di una persona che non aveva ascoltato.

«Un frocetto, ecco quello che sei! Preferisco un figlio morto piuttosto che un figlio succhiacazzi… Questo mi diceva mio padre, e intanto si divertiva a ingiuriarmi. Vieni, dài… Cos’è non vado bene per te? Questo mi diceva quello stronzo, e mi provocava e intanto mi afferrava per le spalle con forza e giù botte quel bastardo…»
Poi Michele tacque, a lungo.

Graziano non smise di fissarlo, con quegli occhi lucidi e rossi per la notte passata senza poter dormire. Sapeva di volergli bene, eccome se lo sapeva. Adesso vedendolo in quel modo però, così indecifrabile e così fragile, di colpo capì di amarlo. Di un amore profondo e con la passione con cui si desidera la persona che si ama. E capì che si sarebbe anche potuto sacrificare per l’altro. Allora a Graziano venne quasi voglia di piangere e di abbracciare stretto l’amico, e stava quasi per farlo…

«Non fare il frocio con me, non ci provare…» gli disse Michele, strattonandolo per un braccio. «Guardami! Non ci sono motivi perché ci scoprano, capisci? Comunque quella sciarpa del cazzo…».
Michele rimase un attimo in silenzio, senza abbassare lo sguardo. Poi riprese.
«Graziano guardami, cazzo! Sulla sciarpa… mica c’è la dedica di Totti sulla sciarpa, eh?»
In quell’attimo preciso Graziano impallidì. Il suo volto divenne bianco come un lenzuolo.
«Cazzo-cazzo-cazzooooo!»

La pioggia continuava a cadere ostinata e adesso i due ragazzi avevano gli abiti e i capelli e il viso completamente fradici. Michele non levava gli occhi di dosso all’amico. Tremava, Graziano. E i denti gli battevano da matti per il freddo, o forse per quel moto convulso delle mascelle che gli veniva quando iniziava a salirgli la paura.

«Michele, io ho paura, mi di… spia…ce.»
Disse con un tono di voce appena percettibile.
Si schiarì la gola.
«Andiamo dalla polizia e raccontiamo come sono andate le cose veramente. Io non ce la faccio… non ce la faccio!»
«Porca puttana, lo sapevo! Lo sapevo che non avrei dovuto fidarmi di un pischello, di uno che ha paura persino della propria ombra… Sei un cagasotto! Me lo avevi giurato, cazzo!»
Lo incalzò Michele, afferrandolo per la giacca a vento e spingendolo con la schiena contro il muro.

Rimasero così uno contro l’altro in silenzio, fermi in quel modo sotto la pioggia, per un attimo interminabile. Il tempo sufficiente a sentire il respiro dell’uno sul viso dell’altro. A leggersi negli occhi e a capire dallo sguardo che tutto s’era ormai compiuto. Niente sarebbe stato più ricuperabile. Neppure la loro amicizia. O forse appena quella.

Alle sei e trenta della mattina dopo – mentre fuori ancora pioveva che dio la mandava – quando Alfonso sfogliò il giornale gli venne un colpo. Non voleva crederlo, ma il titolo e le foto non consentivano incertezze. Allora si lasciò cadere all’indietro sulla sedia, e rimase lì nel suo bar a fissare per alcuni minuti gli sguardi smarriti di Michele e Graziano – quei due ragazzini cui lui voleva bene – ripresi in quelle foto crudeli in bianco e nero, stampigliate sulla pagina della cronaca locale.

* * *

Convalidato il fermo dei due minorenni accusati dell’omicidio del cinquantenne del parco evidenziava il titolo in grassetto. Arma del delitto iniziava l’articolo e analisi del Dna non hanno mentito. Gli assassini dell’uomo del parco ucciso con un colpo di coltello alla giugulare due notti fa, sulle cui generalità c’è ancora molto riserbo, sono proprio i due ragazzini di 16 e 17 anni che si sono costituiti spontaneamente alla polizia a un giorno di distanza dal delitto. Anche gli ultimi dubbi sono infatti caduti proprio in queste ore. Le tracce di sangue sul coltello rinvenuto dalla polizia nel cassonetto dei rifiuti posizionato nelle vicinanze del luogo del delitto, appartengono al cinquantenne ucciso, così come le analisi della scientifica hanno confermato. Le altre tracce di Dna ritrovate sul coltello (del tipo a serramanico in uso anche ai boy scout) appartengono a M.T., uno dei due giovani assassini. La sciarpa con i colori della Roma, con l’autografo di Totti, ritrovata a poca distanza dal cadavere, appartiene invece a G.P., l’altro ragazzo. Rimane ancora incerto purtroppo il movente del delitto.Secondo la ricostruzione della polizia, i due minorenni avevano conosciuto l’uomo alcune settimane prima nella zona del parco, vicino al cascinale in degrado. Qui l’uomo si era fermato per chiedere ai ragazzi indicazioni su una strada e in quell’occasione avrebbe proposto loro soldi in cambio di favori particolari. “Quell’uomo non voleva saperne di lasciarci in pace” ha detto M.T. – il ragazzo più grande – rilasciando piena confessione agli investigatori incaricati delle indagini. “Continuava a starci addosso, a molestarci e le sue proposte oscene si facevano di giorno in giorno sempre più pesanti, noi volevamo invece smetterla ma lui ci minacciava e allora non ci abbiamo più visto.”

Racconto contenuto nell’ebook L’amore sbagliato – Racconti tra sedici anni e dintorni, Colas e Guido Siragusa. L’ebook raccoglie una selezione di loro racconti – due sono scritti a quattro mani – apparsi agli inizi su isogninelcassetto.it, tra il 2002 e il 2004 (quindi quando avevano sedici anni o poco più), la cui lettura fa bene anche agli adulti come un’aspirina per l’incomprensione fra generazioni.

© Marniko (marniko64@gmail.com) – Tutti i diritti riservati
I edizione in e-book [isnc]edizioni, 2014

Lascia un commento