Le due finestre della stanza che dava sul retro

Quando entrai per quella porta a vetri erano da poco passate le undici di sera. Fuori la nebbia di fine novembre stava espandendosi nei vicoli della città vecchia; guardandomi attorno sembrava di essere dentro un quadro naif, dove la mano del pittore aveva pennellato ogni cosa di grigio lasciando che qua e là filtrasse solo la luce giallastra dei pochi lampioni rimasti ancora accesi.

Sapevo che lui era là ad aspettarmi con il suo sorriso facile – avevamo bisogno entrambi dell’altro – di fronte alla porta a vetri e vicino alla scala che portava al piano di sopra. Di sopra c’erano due stanze che il titolare dell’osteria affittava a ore: una davanti, che si affacciava sulla strada, e l’altra sul retro. Di solito prendavamo quest’ultima, ci sembrava di essere più protetti, meno in vista; e poi si sentiva salire dal laboratorio del fornaio all’alba quel profumo di pane appena cotto che ci rincuorava riappacificandoci con il mondo intero.

Cinque minuti dopo eravamo già nudi, abbracciati nel letto. E a me piaceva stare così per un po’, passandogli la mano tra i capelli castani, a osservargli gli occhi nocciola. Lui era molto più giovane di me, ma non lo sentivamo come un problema. Del resto ci siamo desiderati per questo, per la differenza d’età. A lui piacevano quelli maturi; e a me i ragazzi della sua età, che sanno di avere dalla loro la freschezza della giovinezza e fanno di tutto per essere ammirati e amati per lo stato dello spirito, di libertà, di slancio e di entusiasmo di quel periodo della vita.
Non aveva detto niente questa volta, nel rimanere lì così; diversamente dalle altre me lo aveva permesso in silenzio. Allora lo sfiorai con le dita passandogli la mano sul petto, che si alzava e si abbassava nel respiro, e lo percorsi lentamente fino alle labbra che sentii contrarsi e il respiro uscire lento dalle narici e le lingue farsi strada nelle nostre bocche.

Ormai eravamo avvinghiati avidi di desiderio più del solito, e ci amammo  prendendoci con dolcezza mai provata prima, cercando di memorizzare nei nostri cervelli ogni istante di piacere il più profondamente possibile fino a desiderare il minimo gesto dell’altro, con le mani, le bocche, le lingue e le parole.
Per la prima volta lui e io ci sentivamo uguali nello stanarci in ogni anfratto, in ogni piega del corpo e della mente in cui potevano rifugiarci per sfuggire dal mondo. E restammo insieme tutta la notte, in un susseguirsi di amplessi che ci stavano riscattando per tutto il maledetto inutile tempo della nostra vita passato senza l’altro.

Quando la mattina dopo alle otto l’agente di polizia entrò nella stanza, si rese subito conto di quello che era capitato. Qualcosa di così forte e ineluttabile nella tragedia di quel momento. E lo vide per un attimo nella profondità dei nostri occhi, prima di abbassarci le palpebre in un gesto di pietà.
Più tardi giù in cortile, nel freddo di quel mattino senza sole di fine novembre, il giovane poliziotto si accenderà una sigaretta e solleverà lo sguardo verso le due finestre della stanza che dava sul retro. E capirà che ci sono cose a cui è difficile dare una risposta, contro cui non si può lottare, a cui non è possibile opporsi. Tirerà a lungo dalla sigaretta, e se ne andrà a fatica da quel cortile.

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