Metafora (7)

Un ragazzo sui diciannove anni dall’aspetto underground-skate e molto street si aggira a tarda notte per un quartiere periferico di una qualsiasi città metropolitana, una notte come tante offuscata dalla nebbia.
È snello e muscoloso. I suoi abiti sformati e cascanti sembrano incompatibili con la sua corporatura. Ha il cappuccio della felpa color scuro calato sugli occhi, lo zaino rigonfio a tracolla, e lo sguardo puntato nella notte. Gli occhi lanciano di tanto in tanto occhiate oblique e circospette a seconda dell’espressione, degli effetti della luce e dell’inclinazione del capo.
In questo momento è fermo di fronte a un muro scrostato. Si guarda attorno con calma, sbirciando prima da una parte poi dall’altra. Con la mano sporca di vernice colorata tasta la parete come avrebbe fatto un pittore del rinascimento, e secondo le leggi di un’alchimia a me sconosciuta la sfrega ripetutamente quasi a voler plasmare la materia del suo subitaneo gesto creativo.

Di scatto lascia cadere a terra lo zaino. Estrae la bomboletta spray. Muove il braccio nascosto dalla felpa, e con fare deciso inizia a tracciare una riga dall’alto verso il basso. Con gesti rapidi e sicuri della mano traccia un’altra riga, poi altri segni e tratti unificanti, dapprima abbozzati e poi sempre più precisi e definitivi; quindi riempie gli spazi con spruzzi di vernice rossa e poi gialla e poi blu, e ripassa i contorni di quell’insieme che può sembrare una scritta, un logo, un avvertimento… E tutto intorno si spande il colore a liberare il suo talento e celebrare così l’apoteosi di quell’istante. Alla fine, e dopo un’altra sbirciata severa attraverso il cappuccio della felpa tenuto ancora calato sugli occhi, lascia la propria tag tracciandola minuziosamente con la vernice spray indelebile.

Dopo poco indietreggia di alcuni passi, e osserva il frutto di quest’altra semina notturna con la stessa intensità con cui si può osservare un’opera pop in un museo; ma mi rendo conto che qui l’atto è molto più importante della finalità. Poi estrae dalla tasca dei jeans la sua camera digitale: inquadra e scatta. E anche questa ossessione andrà ad aggiungersi alle altre nel suo portfolio.

A vederlo così in quegli attimi precedenti, pareva che il suo mondo, quello vero, fosse tutto quel graffito e non quello in cui è costretto a consumarsi giorno dopo giorno, da qualche parte di questa o di tante altre fottute città.

Più tardi, solo quando mette un piede sull’inseparabile skateboard e inizia a muoversi, scorge quel ragazzo, simile a lui, fermo sul marciapiede di fronte. Per un attimo i due si fondono nel loro sguardo. E un istante dopo provano anche l’impulso di farsi avanti. Dopodiché fingono di ignorarsi a vicenda, e si dileguano nelle luci e ombre della notte.

La notte seguente il graffitaro vede di nuovo quel ragazzo: se ne sta appollaiato in cima a un cassonetto dei rifiuti brandendo una bomboletta spray. Sembra aspettare. E mentre sembra aspettare, getta occhiate severe tutt’intorno. L’espressione è diversa da quella dell’altra notte. È come se fosse in attesa di qualcosa che prima o poi deve succedere. Aspetta e sta in guardia, accovacciato su una fune immaginaria, tesa sopra un nuovo abisso. Sono quasi le tre e venticinque. Il muro in blocchi di cemento è lì sul marciapiede di fronte, illuminato appena dal lampione in quella penombra notturna di periferia: alto, pulito, liscio. Non può resistere a quel richiamo di libertà.

Di scatto il salto. E poi l’euforia di gesti dissacranti che ho visto fare al primo ragazzo la notte precedente, la stessa medesima frenesia fluttuante e così eterea da essere quasi invisibile. E dopo pochi minuti, la raffigurazione: un volto ripreso di fronte, quello di un perfetto estraneo ma a lui così simile, e a tanti altri come lui, in quella rappresentazione simbolica e astratta. Infine la immancabile tag, tracciata con il pennarello indelebile in basso a destra.

Poco prima, ogni volta che il ragazzo all’opera prevedeva un gesto, di tanto in tanto l’altro lo anticipava nella sua mente osservandolo con quella intensità che solo chi riesce a comprendere può avere; quella intensità che porta con sè il germe di una ossessione, come il portatore di una malattia infettiva che trasmette involontariamente il morbo agli sconosciuti senza cadere vittima a sua volta.

Ma adesso lui si sente come se per la prima volta avesse finalmente incontrato qualcuno che gli assomiglia, e una parte di lui stesse uscendo dal suo corpo per andargli incontro. E non riesce a nascondere il proprio turbamento mentre l’altro lo vede in quell’attimo preciso che se ne sta lì poco lontano, dall’altra parte della strada, nel punto che fa angolo con lo spiazzo. I due si osservano a lungo, presi dalla medesima e improvvisa inquietudine. Questa volta però non fingono di ignorarsi come la notte prima, e si avvicinano lentamente, sempre più. E uno guarda l’altro avvicinarsi, in silenzio.

All’improvviso si sente al di là del muro passare un treno merci, e per alcuni minuti il monotono dam-dam delle ruote crea tra i due una strana complicità. Una intimità fatta di sguardi e silenzi, come due sconosciuti che si incontrano sulla riva di un fiume e si siedono uno accanto all’altro. Non si conoscono. L’unica cosa che li unisce è il fiume. Oppure, come capita in questa notte ormai agli sgoccioli, un graffito colorato su un muro che costeggia la ferrovia.

Adesso le loro facce sono proprio una vicina all’altra, e possono scambiarsi il respiro. Ognuno dei due ha un bisogno pazzesco dell’altro. Se a quell’ora della notte qualcuno da una finestra invisibile in qualche punto su nell’aria avesse guardato giù, verso lo spiazzo, avrebbe pensato che quei due taggers erano proprio una persona sola.

In lontananza si sente intanto il suono di una sirena della polizia. Ed è in quel momento che il più magro dei due arriva a sfiorare la mano sporca di vernice dell’altro, la carezza con l’indice e il medio. Ancora e ancora…
Sono semplicemente lì, ed è meraviglioso.

Lascia un commento